Portopalo di Capopassero
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l territorio che oggi comprende Portopalo era abitato sin dall’antichità. Il villaggio è stato denominato in vari modi: inizialmente Capo Pachino, in seguito Terra Nobile ed infine Porto Palo. Il fondatore di Portopalo è stato don Gaetano Deodato Moncada, che se ne interessò fin dal 1778 e che nel 1792 fece edificare a sue spese un centinaio di case intorno alla tonnara. Il primo nucleo urbano era composto da circa 300 persone, tra contadini, pastori e pescatori.
Fino al 1812, quando fu abolita la feudalità, Portopalo fu villaggio suburbio di Noto. Passò poi sotto il decurionato di Pachino, finché nel 1974 non divenne comune autonomo ad opera del Dott. Salvatore Gozzo, medico e politico. L’autonomia del paese, che intanto aveva assunto il nome completo di Portopalo di Capo Passero, fu approvata in sede di Assemblea regionale nel marzo del 1975.
Nel 1936, come risulta dal censimento, era abitato da 1.710 persone, sistemati in piccole abitazioni lungo la via Vittorio Emanuele e si presentava come un tranquillo borgo di campagna. La maggior parte delle case erano bianche e screpolate dal sole e dalla salsedine. In quasi tutte era presente un piccolo spazio (‘u bagghiu) adibito a stalla, dove era anche possibile coltivare un piccolo orto.
In paese non esisteva una rete idrica che fornisse acqua alle abitazioni: le donne erano quindi costrette, per lavare i panni, a recarsi al pozzo comunale presso il castello Bruno di Belmonte (ora Tafuri). La vita dei portopalesi si consumava di giorno nei campi e di sera al mare, al cianciolo, per arrotondare le entrate. (Fonte Wikipedia)

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ell’inverno del 1981 una forte mareggiata che si è abbattuta sulla costa di Portopalo ha consentito l’individuazione di un antico stabilimento per la pesca e la lavorazione del tonno in contrada Scalo Mandrie, di fronte all’isola di Capo Passero. La Sovrintendenza di Siracusa in due successivi interventi ha potuto effettuare la ripulitura e lo scavo parziale dei ruderi messi in luce dal mare e condurre alcuni saggi atti ad individuare la natura e l’estensione del sito. Un ampio tratto di costa è infatti interessato dalla presenza delle caratteristiche vasche che erano usate per la stagionatura del tonno salato e talvolta dal garum: in tutta l’area esplorata si sono rinvenuti abbondanti resti organini costituiti principalmente da grosse vertebre di tonno. L’azione del mare nel corso del tempo ha danneggiato molte strutture mentre altre a causa dell’arretramento ed abbassamento della costa sono state rinvenute a livello del mare. Il complesso più cospicuo comprendeva originariamente almeno dodici vasche ordinate in file di quattro: costruite in muratura con malta e pietrame, misurarono mediamente m. 2,20×2,20 (la prima fila) e m. 2,20×2,70 (la seconda fila) e presentano robuste pavimentazioni in malta, ciottoli e cocciame leggermente digradanti verso il mare; l’altezza originaria della parete non si è conservata. I muri laterali sono intonacati e presentano gli angoli smussati; alcune vasche hanno al centro una depressione circolare che fungeva da vaschetta di decantazione. Le numerose mani di intonaco ed almeno tre successivi rialzamenti della pavimentazione testimoniano l’uso abbastanza prolungato di questa installazione.
Altri raggruppamenti di vasche meno conservati si riscontrano risalendo la scogliera verso nord; fra essi vi sono vasche di dimensioni assai minori (circa m. 1 per lato), del tipo di quelle che si suppone venissero utilizzate per la fabbricazione del garum. Queste strutture non presentano problemi dal punto di vista tipologico: esempi simili sono diffusi in tutto il Mediterraneo e soprattutto sulle coste della Spagna, del Portogallo e dell’Africa del nord, compresa la Tunisia, fino al Mar Nero. Ampia descrizione di queste installazioni, che si datano in prevalenza tra il I sec. a.C. ed il IV sec. d.C., si ritrova nella monografia di Ponsich e Tarradell sulle industrie di salatura del Mediterraneo Occidentale.
A Portopalo esistono anche vasche di un tipo diverso, di forma circolare con ampia imboccatura e Nell’inverno del 1981 una forte mareggiata che si è abbattuta sulla costa di Portopalo ha consentito l’individuazione di un antico stabilimento per la pesca e la lavorazione del tonno in contrada Scalo Mandrie, di fronte all’isola di Capo Passero.
La Sovrintendenza di Siracusa in due successivi interventi ha potuto effettuare la ripulitura e lo scavo parziale dei ruderi messi in luce dal mare e condurre alcuni saggi atti ad individuare la natura e l’estensione del sito.
Un ampio tratto di costa è infatti interessato dalla presenza delle caratteristiche vasche che erano usate per la stagionatura del tonno salato e talvolta dal garum: in tutta l’area esplorata si sono rinvenuti abbondanti resti organini costituiti principalmente da grosse vertebre di tonno. L’azione del mare nel corso del tempo ha danneggiato molte strutture mentre altre a causa dell’arretramento ed abbassamento della costa sono state rinvenute a livello del mare.
Il complesso più cospicuo comprendeva originariamente almeno dodici vasche ordinate in file di quattro: costruite in muratura con malta e pietrame, misurarono mediamente m. 2,20×2,20 (la prima fila) e m. 2,20×2,70 (la seconda fila) e presentano robuste pavimentazioni in malta, ciottoli e cocciame leggermente digradanti verso il mare; l’altezza originaria della parete non si è conservata. I muri laterali sono intonacati e presentano gli angoli smussati; alcune vasche hanno al centro una depressione circolare che fungeva da vaschetta di decantazione. Le numerose mani di intonaco ed almeno tre successivi rialzamenti della pavimentazione testimoniano l’uso abbastanza prolungato di questa installazione.
Altri raggruppamenti di vasche meno conservati si riscontrano risalendo la scogliera verso nord; fra essi vi sono vasche di dimensioni assai minori (circa m. 1 per lato), del tipo di quelle che si suppone venissero utilizzate per la fabbricazione del garum
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Queste strutture non presentano problemi dal punto di vista tipologico: esempi simili sono diffusi in tutto il Mediterraneo e soprattutto sulle coste della Spagna, del Portogallo e dell’Africa del nord, compresa la Tunisia, fino al Mar Nero. Ampia descrizione di queste installazioni, che si datano in prevalenza tra il I sec. a.C. ed il IV sec. d.C., si ritrova nella monografia di Ponsich e Tarradell sulle industrie di salatura del Mediterraneo Occidentale.
A Portopalo esistono anche vasche di un tipo diverso, di forma circolare con ampia imboccatura e poco più strette al fondo: nella maggior parte sono costituite da strati successivi di malta grigiastra friabile appoggiati ad una preparazione di schegge e ciottoli. Le misure variano da m.1,30 am. 2,40 di diametro. Anche queste strutture erano ordinate in file ravvicinate perpendicolari alla linea di costa e comprendenti vasche di analoghe dimensioni.A
monte del gruppo di vasche più numeroso è stata individuata una ampia area con rozza pavimentazione di calce e ciottoli, che sembra riferibile ad un cortile o ambiente forse parzialmente coperto da tettoie (si sono rinvenute basi in pietra con fori per pali lignei) e probabilmente adibito alla prima pulitura e lavorazione del pesce appena pescato. Al di sopra di questa pavimentazione si sono rinvenuti abbondantissimi resti di lische, talvolta bruciate.
Si aggiunge infine che a sud-est di questi saggi sono stati messi in luce alcuni muri a secco che paiono delimitare ambienti di forma irregolare, probabilmente di età ellenistica: lo scavo in questo settore è ancora in fase preliminare.
Questo è uno dei primi insediamenti del genere che sia stato individuato in Sicilia: altri sono stati scoperti di recente alle isole Egadi e presso Trapani. Si sa infatti che l’industria della pesca e della conservazione del tonno in Sicilia era antica e rinomata e che vi erano sulle sue coste numerosi stabilimenti: il gelese Archestrato vissuto nel IV sec. a.C. vanta nel suo poema gastronomico il tonno salato siciliano, e si ricorda che la famosa nave inviata in dono da Ierone II a Tolomeo comprendeva tra le altre cose un carico di tonno salato. Lo stabilimento di Portopalo si identifica quasi certamente col centro di pesca del tonno menzionato da Solimo e Ateneo presso Pachino e che era considerato uno dei tre più importanti della Sicilia.
Il sito archeologico era certamente piuttosto esteso ed ebbe lunga vita nel tempo: l’insediamento funzionava già in età ellenistica e repubblicana, come testimoniano i frammenti di ceramica a vernice nera, di Campana Corridore, di anfore di tipo greco-italico e romano e cessò di vivere intorno al IV-V sec. d.C.. Tale sviluppo era certamente legato all’abbondanza della pesca ricordata dalle fonti.
Un importante ritrovamento è stato effettuato in una delle vasche circolari, dove si è rinvenuto un tesoretto di 325 monete di bronzo, databili poco dopo la seconda metà del IV sec. d.C. Ciò sembra indicare che all’epoca della sepoltura almeno questo settore dello stabilimento non fosse più funzionante.
Dopo l’abbandono di questo insediamento in età tardo-antica, l’attività della pesce del tonno si è spostata probabilmente più a nord, dove esiste una tonnara moderna che ha funzionato fino a pochi decenni addietro. E’ da notare inoltre che a poca distanza da Portopalo, tra Marzamemi e Morghella, vi sono delle estese saline: è probabile che esistessero anche in età antica, quale attività collaterale ed indispensabile alla produzione del pesce salato.
Sull’isola di Capo Passero è stata segnalata la presenza di strutture simili a quelle descritte.
Alla comunità dedita alla pesca ed alla lavorazione del tonno si riferiscono probabilmente gli ipogei di età romana che esistono nell’entroterra di Scalo Mandrie a poche centinaia di metri dalla A monte del gruppo di vasche più numeroso è stata individuata una ampia area con rozza pavimentazione di calce e ciottoli, che sembra riferibile ad un cortile o ambiente forse parzialmente coperto da tettoie (si sono rinvenute basi in pietra con fori per pali lignei) e probabilmente adibito alla prima pulitura e lavorazione del pesce appena pescato. Al di sopra di questa pavimentazione si sono rinvenuti abbondantissimi resti di lische, talvolta bruciate.
Si aggiunge infine che a sud-est di questi saggi sono stati messi in luce alcuni muri a secco che paiono delimitare ambienti di forma irregolare, probabilmente di età ellenistica: lo scavo in questo settore è ancora in fase preliminare.
Questo è uno dei primi insediamenti del genere che sia stato individuato in Sicilia: altri sono stati scoperti di recente alle isole Egadi e presso Trapani. Si sa infatti che l’industria della pesca e della conservazione del tonno in Sicilia era antica e rinomata e che vi erano sulle sue coste numerosi stabilimenti: il gelese Archestrato vissuto nel IV sec. a.C. vanta nel suo poema gastronomico il tonno salato siciliano, e si ricorda che la famosa nave inviata in dono da Ierone II a Tolomeo comprendeva tra le altre cose un carico di tonno salato. Lo stabilimento di Portopalo si identifica quasi certamente col centro di pesca del tonno menzionato da Solimo e Ateneo presso Pachino e che era considerato uno dei tre più importanti della Sicilia.
Il sito archeologico era certamente piuttosto esteso ed ebbe lunga vita nel tempo: l’insediamento funzionava già in età ellenistica e repubblicana, come testimoniano i frammenti di ceramica a vernice nera, di Campana Corridore, di anfore di tipo greco-italico e romano e cessò di vivere intorno al IV-V sec. d.C.. Tale sviluppo era certamente legato all’abbondanza della pesca ricordata dalle fonti. Un importante ritrovamento è stato effettuato in una delle vasche circolari, dove si è rinvenuto un tesoretto di 325 monete di bronzo, databili poco dopo la seconda metà del IV sec. d.C. Ciò sembra indicare che all’epoca della sepoltura almeno questo settore dello stabilimento non fosse più funzionante. Dopo l’abbandono di questo insediamento in età tardo-antica, l’attività della pesce del tonno si è spostata probabilmente più a nord, dove esiste una tonnara moderna che ha funzionato fino a pochi decenni addietro. E’ da notare inoltre che a poca distanza da Portopalo, tra Marzamemi e Morghella, vi sono delle estese saline: è probabile che esistessero anche in età antica, quale attività collaterale ed indispensabile alla produzione del pesce salato.
Sull’isola di Capo Passero è stata segnalata la presenza di strutture simili a quelle descritte.
Alla comunità dedita alla pesca ed alla lavorazione del tonno si riferiscono probabilmente gli ipogei di età romana che esistono nell’entroterra di Scalo Mandrie a poche centinaia di metri dalla costa.
I ritrovamenti di Portopalo, come quelli effettuati in altre località, gettano nuova luce su un’attività di notevole importanza economica nella Sicilia antica e che finora era considerata solo attraverso le testimonianze storiche. -
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i proprietà del Cavaliere Pietro Bruno di Belmonte, la Tonnara di Capo Passero è uno splendido monumento di archeologia industriale. La loggia e lo stabilimento per la lavorazione del tonno, la grande fornace, i magazzini delle botti (o del sale), la chiesa del XVII secolo: qui giungevano i tonni che, macellati e lavorati, hanno costituito nel corso dei secoli una fondamentale risorsa economica per tutta la popolazione del luogo. Quando la tonnara era ancora in attività, già ai primi di marzo iniziavano i lavori di manutenzione delle grandi imbarcazioni di quercia, di quasi venti metri, che, custodite in grandi magazzini durante il periodo invernale, venivano ora tirate fuori per “l’impeciatura” delle chiglie. Venivano inoltre controllate e, nel caso, riparate le pesanti reti. Le grandi ancore, piazzate opportunamente sul fondo, formavano una sorta di passaggio obbligatorio per condurre i tonni nella “camera della morte”. Alla fine della mattanza si tornava a riva per scaricare il pescato: i tonni, trasportati con dei carrelli, venivano condotti in una grande sala per essere sventrati e puliti. Poi si passava alla bollitura, in forni adatti, e, infine, alla conservazione con olio d’oliva.
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La Storia
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ul finire del XVI secolo, per mettere un freno alle continue scorrerie turco-barbaresche che si susseguivano a Capo Passero, nell’estrema punta a sud est della Sicilia, si decise di costruire in questi luoghi una fortezza, presidiata da una guarnigione di soldati ed armata con pezzi di artiglieria. Capo Passero era diventato, infatti, un consueto punto d’approdo per pirati e corsari, che qui si rifornivano d’acqua e si abbandonavano a saccheggi e razzie, catturando spesso poveri sventurati da condurre in schiavitù in terra d’Africa o a Costantinopoli. Nell’aprile del 1583 la Deputazione del Regno, presieduta dal Vicerè Marcantonio Colonna, ordinò all’ingegnere Giovanni Antonio del Nobile di recarsi a Capo Passero “a riconoscer diligentemente le torri et forti che vi bisognino, per scoprimento di cale, corrispondenza de’ segni et maggior sicurezza di quella parte”.
Ma è solo tredici anni più tardi, nel 1596, che la Deputazione espresse la ferma volontà di “metter in essecutione l’opera lungamente procurata d’un forte designato a Capo Passero”, preventivando una spesa di 18.000 scudi. I lavori di costruzione veri e propri iniziarono nella primavera del 1599, sotto la direzione tecnica dell’ingegnere regio Diego Sanchez, ma si interruppero l’anno seguente, per mancanza di fondi. Nel luglio del 1600, per “fortificare il Capo Passero”, il Parlamento siciliano offrì al Re Filippo III un donativo di 21.000 scudi, imponendo una tassa a tutte le città e terre del Regno di Sicilia.
I lavori di costruzione ripresero nel 1603 e furono completati nel settembre del 1607, sotto la direzione dell’ingegnere Giulio Lasso. Gli ultimi interventi riguardarono la posa in opera dello stemma reale, scolpito nella pietra arenaria, che fu collocato sopra il portale d’ingresso della fortezza. Il 2 ottobre 1607, pochi giorni dopo il completamento dei lavori, giunse in visita al forte il Vicerè Giovanni Ferdinando Paceco, marchese di Vigliena, insieme a tutta la sua famiglia e ad un numeroso stuolo di notabili, ministri, ufficiali, soldati e personale di corte. Il Vicerè, molto probabilmente, era atteso per presiedere alla cerimonia di inaugurazione.
Nel corso del ‘700 il forte servì anche da prigione e luogo di confino per i soldati che avevano avuto noie con la giustizia, e fino al 1830 continuò a svolgere un’importante funzione difensiva contro le scorrerie dei predoni provenienti dalla vicina Africa. Nel 1871, con la costruzione di un piccolo faro sulla terrazza, il forte fu abitato da personale della Marina Militare, che provvedeva all’accensione notturna dell’impianto. Solo alla fine degli anni ’50 del Novecento, quando il faro fu provvisto di un congegno di accensione automatico, il servizio di guardianìa terminò e il forte non costituì più presidio militare.
L'architettura
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l forte si erge maestoso sul punto più alto dell’Isola di Capo Passero e poggia con il suo imponente “massiccio” sulla tenace roccia calcarea che affiora diffusamente sull’isola. La costruzione ha perimetro quadrato, con lati di 35 metri. Il basamento, scarpato e privo di aperture, si innalza fino alla quota di 4 metri dal piano campagna; da detta quota si snoda il primo livello, raggiungibile dall’esterno attraverso una rampa di scale a forma di L. Sopra il portale d’ingresso si staglia un grande stemma costituito da un’aquila che regge uno scudo con insegne araldiche. Lo stemma appartiene al Re Filippo III, salito al trono di Spagna e di Sicilia nel 1598.
I muri esterni del forte sono costituiti da blocchi regolari di arenaria ai quattro angoli e, per il resto, da muratura di pietrame calcareo rivestita di intonaco. Tutta la costruzione è concepita attorno ad una corte quadrata, con lato di 12 metri circa. Al centro si trova una grande cisterna dove veniva convogliata l’acqua piovana proveniente dalla terrazza attraverso un sistema di grondaie.
Gli ambienti del primo livello, quindici in tutto, non hanno aperture verso l’esterno e prendono luce ed aria unicamente dalla corte. Ai quattro angoli le stanze sono quadrate e con volte a vela, in muratura di laterizi; le altre, invece, sono rettangolari e con volte a botte. Subito a sinistra del vano d’ingresso si trovava una piccola cappella per le funzioni religiose; gli altri vani del primo livello costituivano invece gli alloggi del cappellano e dei soldati. All’entrata di uno di questi, su un’architrave, è scolpito il seguente motto:
“Melius est invidia urgeri quam commiseratione deplorari, 1701”
che dovrebbe significare:
“meglio sbrigarsi (agire, darsi da fare) che deplorare con commiserazione gli eventi (stando a guardare, rassegnandosi)”.
Anche le sedici stanze del piano superiore sono per lo più prive di aperture verso l’esterno, fatta eccezione per otto piccole finestre disposte sui quattro lati del forte, senza un apparente criterio di simmetria. La disposizione e le dimensioni delle stanze riflettono per lo più quelle del piano inferiore, con lievi differenze. Un ballatoio, sostenuto da grandi mensole, contorna il perimetro della corte, disimpegnando le stanze di questo livello. Qui si trovavano gli appartamenti del comandante e degli ufficiali. Sull’ampia terrazza di copertura era piazzata l’artiglieria. In corrispondenza dello spigolo di nord-est spicca ora il faro della Marina Militare, la cui portata luminosa è di 10,8 miglia nautiche.
(le informazioni contenute in questo testo sono state tratte dal libro “Il Forte di Capo Passero” (2007) del Prof. Antonello Capodicasa, e dal sito www.fortedicapopassero.it)
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‘ Isola delle Correnti (dal latino “Currentium insula”) è una piccola isola rocciosa dalla forma rotondeggiante, estesa per circa 10.000 mq con l’altezza massima sul livello del mare di mt. 4, e collegata alla terraferma da una sottile striscia di roccia, un caratteristico braccio artificiale più volte distrutto dalle onde impetuose (attualmente il piccolo collegamento ha uno squarcio di 15 metri ed è profondo nei momenti d’alta marea un metro circa). E’ il luogo ideale per tutti gli amanti del surf d’onda e del windsurf. Lo splendido mare e le immense e bellissime spiagge della zona richiamano ogni anno grandi quantità di turisti.
Sull’ Isola si trovano alcune casette abbandonate, mentre il nucleo abitativo centrale (dove decenni fa alloggiava il farista con la famiglia), di forma rettangolare con sul davanti un ampio spiazzale, è anch’esso in fase di decadimento, essendo da anni in disuso. L’Isolotto è perennemente battuto dalle onde del mare, quasi sempre in tumulto. Sul posto cresce poca flora, ma vi abbondano piantine di porro selvatico, capperi ed altri arbusti tipici della macchia mediterranea. Da qualche anno inoltre l’isola e una striscia di terraferma sono state utilizzate dalla facoltà di scienze, sezione biologia dell’Università di Catania, per esperimenti su alcune specie di insetti che qui si riproducono.
Nel Novembre 1987 poi l’isolotto stesso, insieme ad una larga fascia di terraferma per una estensione di ha 63,625 è stata inclusa nel piano regolatore dei parchi e riserve naturali, per la presenza di vegetazione costiera con biocenosi alofile e psammofile relitte, tipiche della costa meridionale della Sicilia. Albergano pure ricci, conigli selvatici, oltre a varie specie di gabbiani come gli albatros. Da qui passano nel periodo del flusso migratorio degli uccelli acquatici dal Nord Africa alle coste siciliane, e nascondendosi dietro le alte dune sabbiose, si può osservare il loro migrare. Con i suoi 36° 38′ 33″ di latitudine nord e 15° 5′ 19″ di longitudine est, l’Isola delle Correnti è la punta più meridionale della Sicilia, dell’Italia e dell’Europa: l’Isola è il Sud, Tunisi e già settentrione. La temperatura è piuttosto elevata nel periodo estivo (si possono anche superare i 37° all’ombra), mentre tende a scendere nei periodi invernali, ma raramente o quasi mai sotto i 5°.
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A Paci (La Pace)
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a mattina del giorno di Pasqua, le statue del Cristo Risorto e della Madonna (ancora vestita a lutto perchè non sa della Resurrezione del Figlio) vengono portate in giro separatamente per le vie del paese, con tanto di banda musicale e numerosi fedeli al seguito. Poi, verso le 11.30, i due simulacri vengono a trovarsi l’uno di fronte all’altro, sulla Via Vittorio Emanuele, ad una eguale distanza dalla Chiesa di San Gaetano.
A questo punto è tutto pronto per l’evento che, ininterrottamente dal 1980, viene inscenato a mezzogiorno della Domenica di Pasqua: “A Paci”, che rappresenta l’incontro tra il Cristo Risorto e la Madonna. Il momento culminante è costituito dall’abbraccio fra le statue del Cristo Risorto e della Madonna, che, portate a spalla dai fedeli, corrono l’ una verso l’altra per incontrarsi proprio di fronte alla Chiesa del Santo Patrono. Il tutto è preceduto da una tradizionale cerimonia in costume con tanto di stendardi e paggi che preannunciano alla Madonna la Resurrezione del Figlio. A tale notizia, Maria reagisce buttando via il manto nero del lutto, e si prepara festosa all’incontro che da li a poco avverrà con Gesù Risorto.
“A Paci” costituisce uno dei capitoli più toccanti del documentario “Portopalo si racconta” perchè rappresenta un vero e proprio pezzo di storia del paese.
U Lamientu (Il Lamento)
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e tradizioni riguardanti la Pasqua portopalese sono veramente uniche in tutta la Sicilia. Il Giovedì Santo un gruppo di cantori locali intona “U LAMIENTU”, cioè la storia della Crocifissione cantata e recitata in dialetto siciliano, con una interpretazione altamente suggestiva. Tradizione vuole che l’origine di questa cantilena affondi le sue radici in una passato così remoto che nemmeno i più anziani ne ricordano ormai la genesi. Fatto sta che U Lamientu si tramanda da generazione in generazione, soprattutto oralmente, con pochi reperti scritti riguardanti la struttura e le parole stesse.
Il Venerdì Santo poi il Lamento viene riproposto a spezzoni durante le tappe della Via Crucis in una processione che si snoda lungo le vie del paese, che ogni anno coinvolge un alto numero di fedeli al seguito (praticamente quasi tutto il paese). Al ritorno in Chiesa, i cantori intonano per l’ultima volta il Lamento nella sua versione integrale: da questo momento in poi sarà solo silenzio e preghiera, nell’attesa della Santa Pasqua.
A Cursa re Varchi (La Corsa delle Barche)
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A cursa re varchi”, oggi chiamata anche Palio del Mare, è una regata dedicata a San Gaetano, patrono di Portopalo di Capo Passero, e rappresenta l’appuntamento di più antica e consolidata tradizione storica dell’estate portopalese. Le prime edizioni vedevano in gara barconi a sei remi che tagliavano splendidamente il mare ma sottoponevano a una fatica immensa gli equipaggi a bordo. Negli anni Sessanta si passò ad equipaggi composti da quattro elementi, con minore spettacolarità ma con una rivalità intatta che usciva persino dai confini comunali arrivando fino a Marzamemi, la cui edizione della regata a mare ha fatto da contraltare a quella di Portopalo in nome di una competizione tra Comuni sfociata in un aspro e mai sopito campanilismo. Gli aneddoti e gli episodi che si possono raccontare sul Palio sono talmente tanti da poter scrivere un libro, a cominciare dagli anni cinquanta, quando si fronteggiavano gli equipaggi all’ex “Porto longobardo” in quella che la suddivisione rionale ha denominato zona “Canalazzo – Pizzuta”.
“A cursa re varchi” a Portopalo è un elemento caratterizzante la storia del nostro comune e non può mancare nell’estate portopalese. Le edizioni più combattute sono state quelle a cavallo fra gli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Settanta, periodi in cui la caratteristica del lavoro a mare era tale da rendere inutili gli allenamenti perché le poche barche esistenti in paese ed appartenenti a pochissime famiglie benestanti di Portopalo, che si spostavano al largo per le battute di pesca, erano tutte a remi. I pescatori arrivavano all’appuntamento del palio completamenti rodati dalla dura fatica quotidiana ed inoltre si gareggiava per pura sportività, senza parlare mai di premi e medaglie. L’importante era tagliare per primi il traguardo per poi vantarsi con i rivali fino all’edizione dell’anno seguente.
Altri tempi, altra mentalità. Le generazioni passate attendevano il giorno di San Gaetano per onorare Il patrono e per gareggiare con le barche poiché per il resto dell’anno pochi erano i momenti di svago. Tra le imbarcazioni che hanno superato i confini italiani, partecipando a una gara di barche nella vicina isola di Malta, se ne segnalò una in grado di piazzarsi seconda su dieci equipaggi in gara: gli artefici di quell’impresa furono festeggiati alla grande, quasi come se avessero conquistato una medaglia olimpica. Dagli anni Sessanta in poi Io scenario di gara si è spostato a Scalo Mandrie, a ridosso della zona archeologica di Portopalo dominata dall’isola di Capo Passero, dalla tonnara e dalle vasche dove gli antichi greci e romani lavoravano gli intestini di tonno e di sgombro, come descritto da Plinio il Vecchio nella sua “Naturalis historia”, per trarne il garum, la salsa piccante molto ricercata a quei tempi. Lo spostamento fu determinato dalla realizzazione della strada di collegamento che rendeva possibile l’afflusso massiccio degli spettatori e da questo momento in poi si può parlare di una seconda fase storica del palio dove la forza delle braccia lascia sempre più spazio all’astuzia di gara.
Ed è in questi anni che entrano nell’immaginario collettivo i nomi di alcune barche ancora oggi ricordate: “Asso di bastoni”, “EI conquistador” e “Ariula”, protagoniste di vere e proprie volate al cardiopalma che terminavano spesso in scontri verbali o fisici. Una rivalità che riguardava, prima ancora che i rioni, le famiglie che puntavano a quello che era considerato dai pescatori portopalesi come lo scettro per eccellenza di cui andare fieri per dodici mesi. Si gareggiava soprattutto per mettersi in mostra al cospetto delle fidanzate che in giro si vedevano solo nei giorni di festa. In qualche edizione del palio si ritrovavano avversari persino i componenti della stessa famiglia che abitavano in zone diverse del paese. Non sono mancati i testa a testa tra fratelli e cugini ed era soprattutto questo fattore a tenere alto l’interesse per la gara che richiamava l’intero paese e molti abitanti dei comuni limitrofi. Il “Palio del Mare” è stato soggetto all’interessamento di alcune testate giornalistiche estere: una rivista finlandese ha dedicato negli anni scorsi un servizio sulla corsa e sulle tradizioni marinare portopalesi che oggigiorno faticano a ritrovare lo splendore di un tempo.
A Vinnuta re Cudduri (La Vendita delle "Cuddure")
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l giorno dell’Immacolata ha un sapore diverso a Portopalo di Capo Passero. Nel pomeriggio, dopo la Santa Messa, l’uscita dalla Chiesa della Statua della Madonna viene salutata dalla banda musicale e da sbandieratori che agitano alti stendardi. Poi, dopo la processione per le vie del paese, e dopo il rientro della Statua in Chiesa, c’è la tradizionale “Vinnita re Cudduri”: si tratta di un’asta popolare dove vengono messi in vendita i doni offerti dai devoti all’Immacolata per poi devolvere il ricavato in opere di beneficenza.
L’asta, che è uno degli appuntamenti più antichi della tradizione portopalese, prende il nome di “Vinnita re Cudduri” dall’oggetto della vendita stessa, cioè la Cuddura, una specie di dolce molto duro, composto da zucchero, confetti, mandorle e “giugiulena” (sesamo) e preparato proprio dalle stesse persone che ne fanno donazione.
Fino a qualche anno fa durante l’asta si vendevano solo Cuddure, ma adesso si vende un po’ di tutto: quadri ad uncinetto, dipinti, cassette di pesce, confezioni natalizie, torte e altro ancora.